Querceta

L'angolo della poesia

Poesie in dialetto versiliese, e non, di Silvano Alessandrini ed altri.

Sezione aperta al contributo di tutti. Contattateci.

 

C’è un orto grande (di Silvano Alessandrini)

Quell’orto, col muro attorno ruvido di sasso,
co’ la porta tra i rovi, sgangherata,
dietro la casa dove  sono nato,
era ai miei occhi un mondo sconfinato
quando ero bambino...
C’era un arancio con le frutta d’oro
Due piante colme di bacche d’alloro,
una camelia, un pero ed un susino,
piante di cavolo dal fusto “sperlungone”.
Vi volavan farfalle bianche e gialle
ed a bruchi ed a ragni ogni cantone
era dimora per ogni stagione.
Lo ricordo coperto di rugiada
con la pioggia che canta e con il sole
ricolmo del profumo delle viole
o ricoperto dalle margherite.
Il bugno delle vespe tra le urtiche
ed il miele asprigno pendente dalle scorze,
le lucertole tra l’edera annidate
e gli alti svoli delle capinere
e il palpito di lucciole dorate nelle buie sere.
Oggi, passando a quell’orto vicino
vedo un quadrato squallido, piccino;
sta tutto dentro ad una sola occhiata
umida di pianto, ma non si smaga la favola passata
che mi racconta la malinconia:
“C’era una volta un orto grande nell’infanzia mia”.

 

A vole’ ‘ntende!... (di Silvano Alessandrini)

Faliero, a esse’ chiamato il Tordo
era come se ce l’avessin battezzato:
il su’ nome vero, a la lunga, avea scordato.
Un giorno che doppo il lavoro in segheria
se ne stava soletto, seduto col bicchierea l’osteria,
entrò un tizio, un tale furetiero:
- S’è visto – gli disse – qui Faliero?
Faliero!?...Faliero!?... No! Da queste parti
de’ Ffalieri mi pare un ce ne stia –
gli fece il Tordo.
- Eppure m’han ditto che a quest’ora
l’avrei trovo al siguro a l’osteria!
E’ uno magro e elto come vo’
con de’ bbaffetti
che a tempo perso tornisce anco ‘vvasetti
e doppo po’ li vende...
Lo chiamino il Tordo a vole’ ‘ntende...
Aah! Se parlate del Tordo
la cosa d’è risolta, amico mio!
Che volete da me?
Il Tordo, a vole’ ‘ntende, sono io!!!

 

Le lucciole (di Giorgio  Salvatori)

Quando nulla poteva mitigare
il buio fitto che avvolgea la sera
salivano le lucciole dai prati
con i profumi della primavera.

Era un mare di luci sconfinato
che pareva imitare il firmamento:
connubio di ineffabile bellezza
in un silenzio che infondea sgomento.

Qua e là salivan dalla marginette
dove ogni sera s’adunava gente,
i canti dedicati alla Madonna
per supplicarLa d’essere clemente.

Ma in quelle sere tiepide e incantate
s’udivano anche voci di bambini,
intenti ad acchiappare luccioline,
capaci allora di coniar soldini.

Con quelle in pugno ognuno rincasava,
sotto a un bicchiere le ponea con cura,
e poi ciascuno andava a coricarsi.
Vietato era veder la coniatura!

Al mattino, un po’ tutti di buon ora,
andavano il bicchiere a sollevare:
chi pregustava un piccolo gelato,
chi lo doveva invece rimandare.

Così gli adulti dagli scarsi mezzi
dicevano accorati a quei bambini:
“Le lucciole acchiappate erino maschi,
e i maschi non ne fanno de’ soldini!”

Da quel mondo davvero credulone
oggi ne abbiamo fatti passi avanti,
ma chi ripeterà gli alti silenzi
e le magiche luci palpitanti?

 

La Ro' del Prete (di Luca Garfagnini)

La Ro' del Prete, a vole' 'ntende,
stacéa a Risciolo,
e 'nsine da ragazza, si dicéa
che tutti i venerdì propio un ce l'avéa. 
Mia che fusse matta èh, anzi...
è solo che ogni tanto
facéa e dicéa di cose
che stavino per ritto a le' soltanto.
A conoscila però capivi presto
ch'un era punto d'indole cattiva
e 'l còre, sempre tutto, gli s'apriva.
Così, quando fu del su' Remu'
(caduto sul lavoro),
Risciolo si riccolse tutto unito
per l'ultimo saluto a quel marito.
Successe po', tant'a ddi' un mesetto dopo,
nel giorno dela fiéra per la festa del Patrono,
che Rosa scese 'n piazza
tutta stretta co' 'n altr'òmo.
Il fatto, chiaramente, fu subito notato,
e la gente sgomitava
giust'appena scantonato.
Al che, la Dina, la sua più cara amica,
con voce a tratti calma e a tratti un po' più ardita,
la prése da 'na parte e chiaro gli parlò:
"Oh Rosa ... io un te lo vorrèi di'...
abbi pazienza ... ma un è mia DECORO,
anda' pe' strada GIA' co' 'n òmo NOVO!"
Rimasta lì, sul colpo,
con aria a dire 'l vero assai stupita,
la Ro' rispose,  candida, all'amica:
"Novo propio no, mia cara Dina;
Erne' l'ho sempre avuto,
l'avèo anco prima!"

 

Il Miccio (di Silvio Federigi)

T’amo o mio miccio; d’opposti pensieri,
di folgore o tenèbra, il cor m’inondi,
o che ratto talor più dei destrieri
nella giostra la speme tu m’nfondi,
o che tardo riottoso nel bel bello
della pugna ti freni ti confondi
sì che di te vorria fare un augello
per volare e saettar con occhi mondi.
Dalle fauci tue non derelitte
fuma il tuo spirito, e, come un inno lieto
il raglio nel sereno aer si perde;
e nelle orecchie tue agili e dritte
l’urlo risuona allor, non cauto o quieto
di quei che ‘l cor tu festi così verde.

 

Il Trasporto (di Eleonora Lorenzoni)

Quando more uno,
qui in Versiglia gli si fa il trasporto:
andiemo tutti dietro al carofunebre
e si piange per el morto.
Un abbiemo usanze speciali,
solo il nome, un popoino strano, ci fa' pensa'...
Ma trasporto o funerale, per noi è la solita cosa;
ma nimo osa, nimo osa chiamallo funerale:
qui in Versiglia parlà l'itagliano sta propio male.
Il versiglise è una lingua speciale,
nimo ne pò dubità,
ci viene spontagna, senza pensà.
Senza il versigliese un divertirebbe gnaco parlà!